La finalità di una riforma della L. 62/11 è indicata dalla legge di ratifica della Convenzione di New York, di cui si festeggiava il trentennale nel giorno 27/5/2021: fare il superiore interesse del minore che finisce in carcere con la madre, mentre si controlla che la stessa non commetta altri reati e non si sottragga alla necessaria rieducazione.

Già allo stato attuale delle cose, in moltissimi casi, per non far entrare in carcere i bambini, si applicano norme che impongono alla detenuta madre il differimento pena, con una misura alternativa al carcere, dove la detenuta è controllata e limitata nei movimenti. Se però la detenuta in differimento pena è lasciata incustodita, può commettere altri reati (generalmente furti), come ci ha raccontato nella Tavola Rotonda, organizzata dall’Istituto Salesiano Universitario di Venezia, la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, portando un esempio concreto: una giovane donna, che aveva una pena iniziale di dieci anni, dopo i periodi di differimento pena, avuti per la nascita di alcuni figli, ne deve ora scontare ben di più. Il rischio oggettivo per cui il differimento pena può dare l’impunità per tutta l’età feconda a delle donne, che poi sconteranno le loro pene lunghissime, tutte insieme, esiste. Sembra quindi a molti che questa non sia la soluzione al problema.

  La pandemia ha dimostrato che si possono far scontare alle detenute (e ai detenuti)  molte pene in ambito extramurario, ma il carcere, pur estrema ratio, non è eliminabile.

Infatti, ci sono detenute madri prive dei requisiti soggettivi per far loro scontare la pena agli arresti domiciliari, in quanto considerate socialmente pericolose; oppure prive dei requisiti oggettivi, in quanto non hanno un domicilio o una rete familiare di sostegno. In questi casi ci vogliono le case-famiglia, che già la legge 62/11, mai completamente attuata, prevedeva.  Ne servono in vicinanza alla zona in cui le madri vivono, una per regione, e non è affatto necessario costruirne di nuove, visto che le case famiglia sul territorio nazionale esistono già.  Basti pensare ad esempio alle 350 strutture già esistenti e già fornite di personale esperto dell’associazione “Papa Giovanni XXIII”, che potrebbero essere in molti casi adeguate ai criteri normativi indicati e necessari. In Germania ci sono strutture in parte aperte e in parte chiuse, per evitare l’isolamento di donne e bambini ed evitare la fuga di eventuali “ristrette”. I fondi per le case-famiglia ora sono stati stanziati, ma non devono essere spesi tanto per l’edilizia, quanto per la gestione delle strutture.

Se le case-famiglia fossero un mero alloggio, non si adempierebbe all’art. 27 della nostra Costituzione. Le case-famiglia devono essere comunità vere, con personale di supporto alle donne e ai bambini, che devono frequentare obbligatoriamente le strutture educative esterne.

Questa frequenza obbligatoria, di cui ha parlato la Psico-pedagogista del Comune di Venezia, a maggior ragione deve valere per i bambini le cui madri devono rimanere negli Icam e non dev’essere lasciata al “buon cuore” del volontariato. In Italia i periodi in cui non si va a scuola sono troppo lunghi e la scuola non basta per far crescere bene un bambino: ci vuole una figura di educatore tutta per lui, sia che egli stia in casa-famiglia, sia, a maggior ragione, che viva in Icam. In questo caso è necessario un educatore che gli permetta di avere una casa di appoggio in cui stare durante il giorno. Un educatore molto simile ad un affidatario diurno, nuova figura che dovrebbe essere riconosciuta dal Ministero o dall’ente locale.

Tutto ciò per non far crescere i bambini in carcere, dove le relazioni che essi possono costruire sono necessariamente inadeguate, sia nel numero (la madre solamente) sia nella qualità, in quanto la madre stessa, se detenuta, potrebbe avviare rapporti troppo simbiotici con il figlio o, all’opposto, rifiutarlo. Gli esseri umani crescono e si formano nella relazione e a tutti i bambini deve essere garantita la relazione con la madre, ma anche con il padre, i coetanei ecc.

 La relazione con la madre, se il bambino in Icam dovesse soffrire troppo, e la madre non potesse uscirne, potrebbe essere mantenuta anche a distanza, purché gli venisse consentito, ad intervalli regolari e sicuri, di incontrare la madre. Ogni bambino deve avere un progetto individualizzato per la sua vita e ogni madre deve essere coinvolta nel progetto stesso, come tutti coloro che al bambino stanno vicini e i Servizi Sociali del territorio. Per ciascun bambino si deve provvedere individualmente, per farlo comunque crescere all’esterno (o solo durante il giorno o con affidamenti veri e propri, se ne è il caso),  ma senza privarlo del rapporto con la madre.

 Se tutto questo non si dovesse realizzare, che almeno i bambini in Icam non stiano oltre i tre anni. La loro uscita sia preparata, e la madre possa avere con i figli in affidamento degli incontri regolari e certi. 

Trasformare tutto questo in articoli di legge non è facile, ma è possibile.

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