Ero stata in Nigeria ed avevo visto i miei ex affidati ridotti pelle e ossa, con la malaria addosso.

Loro erano stati portati dalla madre nel suo paese d’origine, quando il paese d’origine dei bambini era l’Italia. Successivamente, una donna sudamericana venne espulsa per legge, dopo la detenzione, con il suo bambino. Questo piccolo era stato in affidamento presso una nostra socia e seppi che in aeroporto aveva realizzato quello che gli stava succedendo e si era messo a piangere disperatamente. Io temetti che per quel bambino la storia di Samuel e Veronica si sarebbe ripetuta e scrissi al Tribunale pe i Minorenni di Venezia, perché i bambini non venissero indirettamente espulsi dall’Italia, paese in cui erano nati e vissuti, ma piuttosto venisse dato a loro e alle madri un permesso di soggiorno. Già questo era successo con la madre dei “miei” affidati, applicando l’articolo 31 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza. Se il marito non le avesse intimato di portargli i figli, avrebbero potuto rimanere tutti in Italia, vivendo onestamente del lavoro materno.

La Presidente del T.M. riunì un tavolo dove erano presenti, oltre alla Questura, la Procura della Repubblica, il Comune di Venezia, la Direzione del Carcere Femminile, dell’UIEPE, la Garante Regionale dei diritti dei detenuti e dei minori, la Gabbianella. Visti i problemi che la carcerazione delle madri procurava ai bambini, la presidente M. Teresa Rossi incaricò la garante Aurea Dissegna di stilare un protocollo d’Intesa in cui si precisassero i comportamenti che ciascuna istituzione presente al tavolo doveva tenere nei confronti dei bambini e delle madri. La prof. Dissegna lavorò per tre anni per fare proposte che venivano regolarmente sottoposte a tutti e il tavolo stesso si riunì molte volte. Ne uscì un bellissimo Protocollo d’Intesa, che stabiliva “chi” tra i presenti doveva fare “che cosa” nelle diverse fasi della carcerazione delle madri che portavano con sé i bambini, nel rispetto dei diritti dell’infanzia.

Durante la carcerazione, si stabiliva che i bambini dovessero essere accompagnati alla scuola materna, e che, essendo questo l’unico modo per rendere la vita dei bambini simile a quella dei loro coetanei con i genitori liberi, le madri non potessero impedirglielo. Le accompagnatrici, qualora avessero trascorso il tempo previsto dal Comune per gli affidamenti diurni con i bambini (15 ore settimanali) sarebbero diventate affidatarie “diurne” e come tali avrebbero avuto una formazione, un rimborso spese, una collocazione. I Servizi Sociali dovevano così occuparsi di questi bambini che vivevano una situazione di disagio nel Comune di Venezia. Inoltre, visto che per i bambini le madri dovevano fare un progetto di vita, si chiedeva loro di farlo assieme a chi poteva consigliarle: un gruppo di 5 persone/enti formato dalla Direzione del Carcere, dalla Direzione dell’Uiepe, dalla Sanità Penitenziaria (il pediatra), dai Servizi Sociali territoriali e dalla Gabbianella, che quei bambini conosceva e accompagnava quotidianamente fuori. Le madri avrebbero espresso ovviamente il loro pensiero in libertà, ma poi avrebbero dovuto rispettare gli accordi. Esattamente quello che non facevano con l’Associazione, che non aveva alcun potere di farglieli rispettare.

I tempi lunghi, che venivano fatti passare (volutamente?) prima delle firme nelle varie stesure dell’accordo, portarono inevitabilmente a firmare il Protocollo quando sia la Direttrice del carcere che quella dell’Uiepe e anche la Garante Regionale stavano per lasciare il loro incarico. La nuova Garante, tenuta a far rispettare l’accordo, non aveva partecipato al dibattito che gli aveva dato vita. Solo alla Gabbianella l’accordo era noto e solo alla Gabbianella sarebbe servito per migliorare la propria condizione di perenne incertezza e per far migliorare la qualità della vita ai bambini. Al Carcere avrebbe dato solo fastidio per vari motivi, tra cui quello per cui l’Istituto di Pena avrebbe dovuto condividere il proprio potere sulle madri con i Servizi Sociali, che avrebbero avuto in carico i bambini.

Di qui partì un lunghissimo braccio di ferro con le istituzioni carcerarie, che erano ovviamente più potenti dell’Associazione e volevano che nulla cambiasse, mentre tutte le altre istituzioni si guardavano bene dall’entrare in conflitto con la nuova Direttrice dell’Istituto di Pena, notoriamente capace di prestare attenzione solo ai propri superiori. Quando a Rebibbia una madre “ristretta” uccise i suoi due figli mentre era detenuta in quell’Istituto, si capì finalmente che i bambini dovevano essere protetti dall’autorità a tale scopo preposta: il Tribunale per i Minorenni, non la Direzione del carcere. La nuova Garante partecipò ad un convegno da noi indetto a tale scopo. Ma l’emozione durò poco: spentasi l’eco di questi terribili fatti di cronaca, si tornò all’idea per cui nulla doveva cambiare e (beffa delle beffe!) si facevano passare riunioni di una trentina di persone, senza le madri dei bambini, per le riunioni ristrette di 5 membri con le madri. Inoltre, si faceva passare il verbale delle riunioni gigantesche per i progetti ragionati sui bambini.

Chi ricordava che il Protocollo non aveva dato simili indicazioni era solo la sottoscritta, per questo trattata sempre peggio, aggredita verbalmente da chi non conosceva gli accordi nelle riunioni di cui sopra. Quando si arrivò a pretendere che le nostre accompagnatrici aspettassero i bambini fuori dall’Icam perché non parlassero con le madri, a cui la sottoscritta aveva detto che esisteva un Protocollo d’Intesa, predisposto per loro, la Gabbianella lasciò il carcere. Tanto più che, a margine di un incontro interistituzionale (dove la Presidente del T.M. aveva detto le stesse cose che continuavo a dire io, cioè che si dovevano fare diversi progetti sul bambino che stava per uscire dall’Icam, per poi essere pronti ad applicarne almeno uno), fui avvicinata al buffet da due operatrici, irritate dai rimproveri ricevuti davanti a me, che mi dissero a voce bassa: “Tanto voi nell’Icam non ci entrerete più”.

Quando uno dei due fratellini che allora vivevano con la madre, fu dato in affidamento a sconosciuti invece che a chi lo conosceva bene tra noi, portato via nel giorno del suo sesto compleanno, senza alcuna forma di preavviso né a lui né alla madre, scrissi un articolo per il Gazzettino, ma pochi lo lessero e noi lasciammo l’Icam molto tristemente, dando ufficiale disdetta ad accordi mai attuati.

Il carcere rimase senza accompagnatori, la vita dei bambini peggiorò tantissimo.

Personalmente capii che gli accordi possono essere solo carta straccia, come dimostra la storia recente degli accordi internazionali. Solo i rapporti di forza sembrano contare.

Contributo di Camilla Radice: L’ultima accompagnatrice

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