L’Associazione non era nata in carcere, ma sul territorio. Nel 2020 al territorio tornò, carica dell’esperienza fatta in carcere. Fu così che partecipò ad un bando regionale con un progetto dal titolo “Cura della prima infanzia, contro la povertà educativa, in tempo di Covid”, proponendosi di accompagnare all’asilo nido e alla scuola materna i bambini che non ci potevano andare, esattamente come si era fatto per i figli delle detenute.
Non appena il progetto passò, eravamo nel 2021, chiesi la collaborazione del Comune per capire a quali famiglie “La gabbianella” avrebbe dovuto rivolgersi per offrire accompagnamenti. L’Assessore alla Coesione sociale, Simone Venturini, prontamente invitò i Servizi Sociali a rapportarsi a noi per instaurare rapporti di collaborazione. Evidentemente i Servizi Sociali apprezzavano la possibilità di coinvolgere il volontariato nella cura di alcune famiglie. Ne nacque una collaborazione che durante l’ultima parte della mia presidenza si estese sempre più e durò anche dopo le mie dimissioni, con la nuova presidenza.
Eravamo in tempo di Covid e i bambini erano tenuti in casa, alcuni più degli altri. Le famiglie che meno li facevano uscire erano quelle provenienti dal Bangladesh, di solito residenti a Marghera. Si trattava di immigrati, spesso da molto tempo in Italia, ma scarsamente integrati. Talora il padre era seriamente ammalato o era stato vittima di infortuni. Insomma entravamo in contatto con i veri “poveri” del territorio: dal punto di vista economico, perché mancava il reddito principale del lavoro paterno; dal punto di vista relazionale, perché erano lontani dalle loro famiglie e non avevano instaurato legami sul nostro territorio non conoscendo bene la nostra lingua; dal punto di vista educativo, perché ai bambini venivano precluse mille opportunità, proprio come ai loro coetanei del carcere: spesso nessuno poteva accompagnare i piccoli all’asilo nido e alla scuola materna o perfino al parco-giochi.
Organizzai una squadra di accompagnatori, spesso molto bravi e giovani, che cominciarono ad accompagnare i bambini a scuola e furono immediatamente coinvolti in tutti gli altri problemi delle famiglie che stavano seguendo: permettere alle madri di curare i mariti ammalati, mentre qualcuno restava con i bambini; aiutare la famiglia a traslocare; portare fuori i bambini quando la scuola era chiusa; offrire ai bambini alcune occasioni di svago, accolte sempre con la stessa gioia con cui le accoglievano i bambini del carcere; aiutare le famiglie a cercare lavoro, se qualche membro della famiglia poteva e voleva lavorare; mettere le famiglie in contatto tra di loro, inventando occasioni di festa, grazie anche all’ospitalità nella parrocchia della Cita (Marghera) dov’era parroco Don Nandino Capovilla (proprio colui che sarebbe stato espulso da Israele alcuni anni dopo) e ad un educatore-clown Andrea Cappelletto, sempre pronto a portare la sua capacità di animazione dovunque ci fosse bisogno di una risata rasserenante, dal carcere alla parrocchia.
Nel frattempo, eravamo partner di “Bambinisenzasbarre” in un progetto triennale di cura a famiglie dove il padre era in prigione. Le attività che venivano attuate per queste famiglie e per gli altri bambini del progetto “Cura della prima infanzia” erano molto simili e comprendevano l’aiuto scolastico e il sostegno psicologico indiretto alle madri.
Indiretto perché i nostri giovani (e meno giovani) seguivano i casi loro affidati, ma poi parlavano dei problemi delle famiglie in cui erano coinvolti con la nostra psicoterapeuta Paola Ruggenini. Di nuovo la formula del gruppo di sostegno e condivisione avviata con il “cerco nido” e proseguita durate i progetti in carcere, funzionava.
Storia di Giò
Tra tutte le situazioni da noi seguite, una da sola prese un enorme lavoro a tutti noi: si trattava di un ragazzino, che chiameremo Giò, che si rifiutava di andare a scuola in una classe elementare, in quanto non voleva staccarsi mai dal padre, che era a casa dal lavoro per causa del COVID. Padre e madre si erano separati da poco, perché la mamma aveva un nuovo amore e il bambino non glielo perdonava. Giò voleva stare sempre con il papà e io feci rientrare questa diade padre-figlio nel progetto “Liberi di crescere” in quanto il padre aveva avuto alcuni problemi con la Giustizia per un breve periodo.
Il bambino da una parte non voleva stare con la madre, dall’altra era ossessionato dalla paura che il padre lo abbandonasse. Non lo lasciava stare solo nemmeno per il tempo di fumare una sigaretta. Era successo che il papà un giorno non era andato a prenderlo all’uscita da scuola e aveva lasciato che al suo posto andasse la ex moglie, che il bambino rifiutava. Dopo questo “tradimento” Giò si rifiutò di andare a scuola e il padre, che era stato un mio alunno da bambino, e a sua volta era cresciuto presso un istituto di suore, venne a chiedermi di preparare il figlio affinché sostenesse un esame come privatista a fine anno scolastico, per poter essere reinserito nella sua classe qualora le ansie che provava si fossero ridotte.
La sede della Gabbianella divenne anche aula scolastica, dalle 9 alle 13, tutti i giorni feriali. Qui lavorava la stagista che avevamo allora; un ragazzo che rientrava in uno dei progetti con un contratto; un volontario e … la sottoscritta, che era stata insegnante. I problemi di ansia che tormentavano il bambino vennero affrontai con una psicoterapeuta infantile, Dora Sullam, responsabile del “Centro di Consultazione per genitori, bambini e adolescenti”, mentre anche il padre aveva trovato sostegno psicologico con un’altra nostra vecchia amica, Ketti Conte. Insomma, una sinergia di forze simile ad un consiglio di classe (ogni insegnante aveva la sua materia e il suo programma) con annesso sostegno psicologico e gioco del calcio, dove tra gli insegnanti avevamo un giocatore professionista e al bambino giocare con lui piaceva molto. Giò però sembrava del tutto refrattario ad ogni forma di apprendimento scolastico, benché apprezzasse le cose che via via andava scoprendo anche nell’ambito della cultura generale e benché gli piacesse leggere. Diceva che da grande avrebbe voluto fare il cuoco ed allora, avvicinandosi l’esame, gli feci cucinare delle polpette a casa mia. Doveva considerare il peso della carne macinata e il costo della stessa, leggere ed applicare la ricetta e simili. In altre parole, fare piccoli calcoli e capire un testo, sia pure quello della ricetta, per metterlo in pratica. Lo fece volentieri e all’esame parlò di questo, facendo bella figura. Ma la grande scommessa all’esame consisteva nel presentarsi da solo alla commissione esaminatrice e nessuno sapeva se ce l’avrebbe fatta a staccarsi dal padre, che fino a quel momento aveva avuto la pazienza enorme di lasciarlo vivere in simbiosi con lui. Fu accompagnato all’esame da Davide e Giulia, due dei suoi amici-insegnanti, e naturalmente dal padre.
In sede aspettavo anch’io. Poi un messaggio: “E’ salito”, quindi un altro messaggio “E’ andato bene”. E le successive telefonate, incontri, buoni propositi per il futuro.
Giò, nell’anno scolastico successivo, è tornato nella sua vecchia classe, ha ripreso a vivere con la madre, anche perché era più vicino alla scuola, e nel fine settimana stava con il padre, sempre amatissimo, ma in maniera meno patologica.
Vacanza di Grumes
Agli altri bambini, alcuni del Bangladesh, uno eritreo, due marocchini, fu offerta invece, nell’estate che seguì, una vacanza originale in Val di Cembra in un ostello piccolo e accogliente, che autogestimmo. La Val di Cembra è una valle del Trentino poco toccata dal turismo e ancora autentica. I pochi abitanti di Grumes, il paesetto dell’ostello, accolsero questa strana compagnia di ragazzini, mamme velate, coetanee altrettanto infagottate (mi si conceda il termine visto che l’abbigliamento femminile non era proprio quello che è comodo in montagna) con grande spirito di accoglienza e ci fecero stare bene. Il bambino più bravo a giocare a calcio fu subito inserito in un gruppetto di ragazzi locali più grandi, con cui era fiero di stare, gli alpini del luogo ci permisero di fare pic-nic nella loro baita, scarponcini e altro abbigliamento sportivo per bambini ci furono regalati, ecc.
Con il gruppo venne nonno Ivano, un signore che era entrato nella Gabbianella in seguito alla segnalazione di una maestra di una scuola materna di Marghera e si dimostrò prezioso; Federica, ex affidataria, che era entrata nel progetto “Cura della prima infanzia in tempo di COVID” e poi la sottoscritta e aiutanti vari trovati in loco.
Bambini e famiglie capirono che l’Italia non era solo Marghera. Già avevano scoperto con noi la spiaggia, ora scoprivano la montagna. Anche questo faceva parte della lotta contro la povertà educativa, per non parlare di altri aspetti della convivenza come la distribuzione dei compiti e la difficile gestione del cibo, laddove nemmeno il pane appariva un cibo per tutti, in quanto dentro c’era dello strutto che proviene dal maiale.
Riuscimmo miracolosamente a contenere le lacrime di chi stava per la prima volta senza la propria madre e poi pianse di nuovo dovendo lasciare Grumes, le ansie di chi non voleva addormentarsi di notte, il dispiacere di chi si sentiva emarginato dai compagni, non essendo bravissimo nel giocare, e simili. Ma fummo tutti felici nel trovare finferli e porcini, che cucinammo e mangiammo insieme, nell’andare nel rifugio Potzmauer e nel fare altre belle passeggiate e scoperte, benché non avessimo un pullman privato, ma ci servissimo dei mezzi pubblici che la “Trentino green card” metteva a disposizione dei bambini gratis. Al momento dei saluti, tutti erano commossi. L’unico padre presente mi chiese di aiutarlo a cercare lavoro e mi disse che gli sarebbe piaciuto trasferirsi a Grumes.
Noi accompagnatori eravamo distrutti, ma contenti.
Quando andammo a Grumes, nel settembre 2022, non ero già più presidente, benché avessi concepito e gestito la vacanza.


